Walls Have Ears

Nel 1985, qualche mese dopo l’uscita del loro secondo album, Bad Moon Rising, i Sonic Youth erano in giro per il Regno Unito e divoravano i palchi con quel potente misto di potenza creativa, rabbia giovanile e sperimentazione sonora per il quale li amiamo.
Le registrazioni di tre concerti di quel tour furono catturate in un bootleg e pubblicate nel 1986 – senza il consenso della band – da Paul Smith, manager e fondatore dell’etichetta Blast First, che allora seguiva le uscite in Europa non solo dei Sonic Youth ma anche, fra gli altri, di Butthole Surfers e Dinosaur Jr. Pare fosse Lydia Lunch a passargli le cassette della migliore scena alternativa americana.
Quel doppio LP, velocemente scomparso, era molto più di un album dal vivo: catturava la performance di un ensemble sperimentale in piena evoluzione, che intesseva canzoni di forma compiuta con segmenti di registrazioni su nastro, momenti di “audio-verità” e anticipazioni da quello che sarebbe stato l’ep Master-Dik. Un compendio noise rock nella sua espressione più autentica, da parte del gruppo che più di ogni altro ha definito il genere e, allo stesso, ne ha abbattuto i confini.
Ritirato con la stessa rapidità con la quale era apparso, il doppio album esce nuovamente oggi per volontà dei Sonic Youth – e per la loro etichetta, Goofin’ – con il titolo Walls Have Ears. Un significato particolare ce l’ha probabilmente per il batterista Steve Shelley, che non solo si è fatto carico negli ultimi anni di riportare alla luce e riordinare il vasto archivio di registrazioni dal vivo della band, ma proprio alla metà degli anni Ottanta prendeva il posto di Bob Bert (qui ci sono entrambi, un disco a testa).
Non ci resta che augurarci che da quell’immenso archivio escano altre perle come questa, nella saggia consapevolezza – acquisita con l’età – che è naturale uccidere i propri idoli, ma qualche volta è meglio di no.

artwork
Walls Have Ears (Goofin’)
Posted in Music | Tagged , , , , , , , | Leave a comment

Mount Matsu

Vivere a Maastricht, Paesi Bassi, ma sognare un’isola tropicale del Sud-est asiatico… Così si sente la band olandese YĪN YĪN, volteggiante su una continua tensione tra suoni occidentali e orientali, surf rock e folclore giapponese, sintetizzatori kraut e chitarrine, soul e psichedelia, pop e disco.
Per dare forma sonora a questa inquietudine creativa, i quattro musicisti – Kees Berkers (batterista), Remy Scheren (bassista), Robbert Verwijlen (tastierista) ed Erik Bandt (chitarrista) – si sono chiusi in studio nella campagna belga, senza tanti contatti con l’esterno, viaggiando da un capo all’altro del mondo soltanto sull’onda delle loro idee musicali. Non è questo il bello della musica e dell’arte in generale? Ci porta dove vogliamo e persino dove nemmeno immaginiamo, anche restando fermi in un luogo.
Il risultato è Mount Matsu, un album caleidoscopico e prevalentemente strumentale, molto influenzato dalla psichedelia asiatica e dal funk estremo-orientale degli anni Sessanta e Settanta, con alcune canzoni occasionalmente impreziosite da soffuse armonie vocali, che aggiungono ancora più profondità alla loro espressione soul. L’intima relazione con il dancefloor si sente in alcuni brani irresistibili: non si può restare fermi con “Takahashi Timing”, “Pia Dance” e “Tokyo Disko”, il singolo vincente del disco. Davvero efficace anche “The Perseverance of Sano”, che sarebbe la perfetta colonna sonora di un film di Tarantino girato in Asia.
Tutto molto divertente, tutto confezionato bene, e i quattro sono anche simpatici.

artwork
Mount Matsu (Glitterbeat Records)
Posted in Music | Tagged , , , , | Leave a comment

F_X_M_X_L_Y v2

L’etichetta Black Techno Matters di Washington, D.C. è stata creata dal dj e produttore Bernard Farley aka B_X_R_N_X_R_D per scoprire e valorizzare le diverse forme della musica elettronica nera. Spesso, purtroppo, le profonde radici afrodiscendenti della scena elettronica e dei suoi momenti più innovativi sono trascurate, dimenticate, misinterpretate, ma la techno e la house sono sorelle del jazz, del blues e del funk, come le realtà musicali di Detroit e Chicago ci hanno ampiamente dimostrato, per esempio, negli anni Ottanta e Novanta.
Per iniziare il 2024 con il piede giusto, la Black Techno Matters ha pubblicato la compilation F_X_M_X_L_Y v2 riunendo sedici produttori fra quelli che nel corso degli ultimi anni hanno collaborato e partecipato agli eventi dell’etichetta, formando una sorta di collettivo aperto e dinamico. Con la sua varietà di stili e influenze F_X_M_X_L_Y v2 offre, da un lato, una panoramica su quanto di interessante è uscito l’anno scorso e, dall’altro, una bella anticipazione delle prossime tendenze. Se il formato album digitale, da scaricare o ascoltare in streaming, contiene venti tracce, la forma completa della compilation è invece disponibile solo in edizione limitata come chiavetta USB con 130 tracce per oltre diciassette ore di musica e un archivio di flyer e video degli eventi BTM.
In apertura spingono subito “Mode-Offline” di MerlinBerlin e “Seek the Rhythm” di Trovarsi, che ricorda le tracce killer di Jeff Mills, mentre più avanti spicca la traccia glitch “Killing Us Softly With Convenience” dello stesso B_X_R_N_X_R_D. È ispirata ai dancefloor degli anni Novanta la suite poliritmica “Stimulus Check” di Jamal Dixon, mentre l’ironia è protagonista in “Pop My Butt” di Kotic Culture.
La versione breve in disco digitale è già un’ottima notizia per le persone appassionate di techno e cassa dritta, ma, se avete in mente di organizzare un rave o una street parade, mettervi in tasca una chiavetta USB piena di buona musica elettronica potrebbe essere una buona soluzione. Peccato solo che qui in Italia, pieno Medio Evo, non si può.

F_X_M_X_L_Y v2 (Black Techno Matters)
Posted in Music | Tagged , , , , | Leave a comment

fabric presents Sama’ Abdulhadi

La sua Boiler Room da Ramallah, Palestina, del 2018 è una delle più viste della serie con oltre dodici milioni di visualizzazioni. Quando si esibisce alla consolle, la dj e producer Sama’ Abdulhadi è capace di trasformare ogni set in una performance coinvolgente, trasmettendo energia ed emozioni. Le espressioni del suo volto e i movimenti del suo corpo sprigionano concentrazione, euforia, sfrontatezza, eleganza, determinazione, forza… e restituiscono il senso di liberazione, evasione e rivendicazione che talvolta solo la musica techno può dare.
Non c’è disco più adatto a questo momento storico del lungo mix curato per fabric Records dall’artista palestinese, figlia di esuli costretti a lasciare la propria terra dalle autorità israeliane prima che lei nascesse. Era tornata a Ramallah da bambina, scoprendo l’hip hop e il calcio, per poi ripartire da ragazza per studiare, suonare, seguire la musica. Oggi le resta il paradosso di essere un riferimento della scena elettronica internazionale e, allo stesso tempo, vedere la sua terra e la sua gente sparire sotto le bombe.
L’urgenza e il bisogno di spazio spingono i beat di questa compilation: oltre settanta implacabili minuti di bassi ostinati, batterie martellanti e synth taglienti rivelano la cultura versatile di Abdulhadi, che ha selezionato e mixato brani diversi, tutti in qualche modo significativi per lei e rappresentativi della techno globale. Nomi già affermati e influenti, ma anche talenti emergenti pronti a spiccare il volo. L’atmosfera è tesa, densa, avvolgente, ci fa tenere i pugni stretti e digrignare i denti. Sentiamo la cassa dritta nella pancia e ci muoviamo perché non possiamo farne a meno.
Dopo una manciata di tracce arriva anche il nuovo singolo di Sama’, intitolato “Well Fee” e cantato dall’artista palestinese Walaa Sbeit. Qui si condensa lo stile potente della producer: batteria pesante, beat velocissimi e voce ipnotica per un pezzo energico, viscerale, irresistibile. Ma anche un pezzo di resistenza: suonare la musica di Sama’ Abdulhadi è chiedere libertà per la Palestina e il suo popolo, è ricordare qual è la questione più urgente del nostro tempo, è sognare di tornare a ballare a Ramallah e a Gaza, se mai ne resterà qualcosa oltre al dolore e alla nostra vergogna.

fabric presents Sama' Abdulhadi
fabric presents Sama’ Abdulhadi (fabric Records)
Posted in Music | Tagged , , , , , | Leave a comment

#freeGaza

Queste pagine sono silenziose da qualche tempo, hanno temuto di non sapere trovare le parole giuste per esprimere solidarietà e vicinanza a Gaza e alle sue persone, per dare voce a tutto il dolore che prova il popolo palestinese ogni giorno. Non da qualche mese, non dal 7 ottobre 2023, ma dal 1948.

L’unico desiderio che vorremmo vedere esaudito nel nuovo anno è quello di una Palestina libera e in pace, uno stato sovrano che non conosca più la violenza dei raid e delle bombe, dove le persone possano vivere serene, amarsi, crescere e invecchiare nella loro terra.

Non c’è molto altro da dire che non sia già stato ripetuto allo sfinimento, ma è importante continuare a parlare della questione palestinese – la questione cruciale di questi due secoli – e del diritto all’autodeterminazione di una popolazione devastata che conosce solo sofferenza da oltre 75 anni.

La playlist di fine anno è dedicata a Gaza e al suo sogno di libertà.
#freeGaza

Posted in Music | Tagged , , , , | Leave a comment

Blackity Black Black Is Beautiful

Nel corso della sua carriera più che trentennale, la cantante, compositrice e musicista newyorchese Fay Victor ha attraversato continenti, ma soprattutto generi e stili, passando dal jazz all’avanguardia, dalla classica contemporanea al blues, dall’opera alla sperimentazione, dal gospel fino alla dance music.
Nel suo nuovo lavoro come solista – nel senso che fa proprio tutto da sola, dalla scrittura alla produzione – Victor si ispira al concetto di “Black is Beautiful”, reso famoso da Marcus Garvey e poi ripreso dai movimenti di liberazione nera negli anni Sessanta. Blackity Black Black Is Beautiful è il titolo dell’album, appena pubblicato dall’etichetta Northern Spy Records, che diventa una coraggiosa e sincera meditazione su razzismo, lotta di classe e parità di genere. Il personale è politico, come spesso accade quando il terreno di confronto è la condizione di una donna, nera, che parla per tutte le donne, nere. Con intelligenza e sensibilità d’artista, Victor promuove una discussione intersezionale, l’unico cammino percorribile oggi per riflettere sulle cose e provare a cambiarle.
Dal punto di vista musicale le composizioni del disco combinano musica elettronica e avant-garde, sfruttando la vocalità raffinata e multiforme di Victor come strumento. Allo stesso tempo, le parole hanno una dimensione poetica importante, chiedono attenzione per se stesse anche nella sostanza, non solo nella forma.
Ad aprire è proprio “Black Women’s Music”, vero e proprio inno al potere delle donne nere, che sono “the anchor and the base”, l’ancora e la base dell’umanità. Un paesaggio sonoro di ghiaccio costruito su synth e piano elettrico sostiene la forza del testo, che diventa commovente nella performance della cantante. Subito dopo “Breezy Point Ain’t Breezy” martella con un beat industriale per raccontare un episodio di razzismo a New York, metropoli degli estremi nel bene e nel male.
Alla fine di un viaggio sonoro multicolore fatto di dense armonie vocali, free jazz elettronico e blues, l’album si chiude con la potente “Trust The Universe (Dedicated to Sun Ra)”. Emergendo da un oscuro muro di suoni elettronici, Victor evoca il nome del leggendario Sun Ra, ispirandosi allo stile vocale di un’altra meravigliosa cantante nera, June Tyson, che dal 1968 fino all’anno della sua scomparsa (1992) fu presenza carismatica dell’Arkestra. La conclusione dell’album porta con sé il messaggio complessivo: anche se la lotta di una comunità o di una minoranza può sembrare insormontabile e infinita, bisogna avere fiducia in qualcosa di più grande, ovvero la potenza e la bellezza intrinseca di quella comunità unita.

artwork
Blackity Black Black Is Beautiful (Northern Spy Records)
Posted in Music | Tagged , , , , , , , | Leave a comment

Homo Anxietatem

Settembre, si ricomincia. Settembre, il mese dell’ansia. L’ansia per la ripresa di scuola e lavoro, per le vacanze troppo lontane, per il meteo incerto, per i buoni propositi che poi saranno disattesi. L’ansia è l’unica cosa che ci distingue davvero dagli altri animali, mica l’intelligenza.
Sarà per questo che il cantautore statunitense Shamir dedica a questo stato della mente il suo nono album in studio, intitolato proprio Homo Anxietatem. Ancora prima di aver raggiunto i trent’anni, questo camaleontico artista ha già mutato forma molte volte e pubblicato dischi di genere diverso, dall’heavy rock all’industrial, ma questa volta si dedica a quello più nostalgico per sé e per la sua generazione: il pop-rock ispirato agli anni Novanta e ai primi Duemila con un’atmosfera da High Fidelity (libro, film o serie, a piacere).
Assestata la formazione base di chitarra, basso e batteria con qualche eccezione, come nel brano di chiusura “The Devil Said the Blues is All I’ll Know”, un disperato blues chitarra e voce, le canzoni sono scarne, essenziali, con pochi fronzoli. I testi sono intimi e diretti, così la scrittura diventa il principale strumento d’introspezione per Shamir, che sembra più maturo, più ancorato alla realtà, più ansioso di capire i vari perché delle sue problematiche relazioni affettive (come tutte le persone). Riflettere molto, prima su di sé e poi su chi ci sta accanto, accettare e resistere alle tempeste della vita, crescere in saggezza e non solo d’età: sarebbe questa la via da seguire, ma non sempre ci si riesce.
“Our Song” è il brano-manifesto del disco e, contemporaneamente, di certe storie d’amore finite male (avete presente la Top Five Heartbreaks di Rob Brooks?). Usando sapientemente volume e dinamica della voce, Shamir esprime tutto il romanticismo e l’angoscia di quei momenti che purtroppo conosciamo bene, ma che raccontati da noi suonano solo patetici.
Nel corso dell’album si può giocare a trovare riferimenti della cultura pop, svelati con ironia e abbinati a immagini azzeccate. In “The Beginning” dice: “I wish I could turn back time, just like Cher”, intendendo che si può vivere, crescere, imparare e reinventarsi, non limitarsi a cambiare aspetto.
La cornice complessiva di Homo Anxietatem è chiara e coerente, ma le undici canzoni sono diverse fra loro e raccontano tante contraddizioni, musicali e personali. La stessa varietà che ha reso grande il pop-rock degli anni Novanta-Duemila e che, signora mia, avercene oggi!

Homo Anxietatem, artwork
Homo Anxietatem (Kill Rock Stars)
Posted in Music | Tagged , , , , | Leave a comment

#thegreatmixtegypt2023

Sei anni e mezzo sono tanti, in mezzo ci sono cambi radicali, trasformazioni, alti e bassi. Per me e per la metropoli che continua a chiamarmi dall’altra parte del Mediterraneo. Cairo calling, ancora e nonostante tutto.

Il Nilo dalla Cairo Tower, Zamalek © Claudia Galal, giugno 2023

Il Nilo è il Cairo. Ogni volta che raggiungo la città dall’aeroporto, sento di essere arrivata solo quando vedo il fiume e lo attraverso. La sua presenza è potente, il suo respiro è vitale.

Le Piramidi di Giza © Claudia Galal, giugno 2023

Poi c’è tutto il resto, che non è poco. A partire dalle Piramidi di Giza, che mi lasciano ogni volta senza fiato anche se il giro è sempre piuttosto stressante.

Sotto, un po’ di freestyle. Immaginate di ascoltare una fantomatica Radio Mahraganat e lasciate che la musica disegni l’atmosfera caotica, colorata e cangiante del Cairo.

Posted in Music, Uncategorized | Tagged , , | Leave a comment

REAL B*TCHES DON’T DIE!

La definizione di rapper sta stretta a Kari Faux, che invece è un’artista nel senso più ampio del termine e nel suo approccio alla musica. Rapper, ma anche cantante e autrice, produttrice e dj (e designer di moda), talento creativo dalla visione ampia e dall’intuito fino, dopo qualche anno nel tritatutto di Los Angeles è tornata nella sua Little Rock, Arkansas, per ricaricare le batterie e ristabilire le priorità.
La chiusura del cerchio è REAL B*TCHES DON’T DIE!, il suo album più compiuto e maturo, dodici tracce che omaggiano le radici Southern senza perdere l’abitudine ad abbattere confini di genere e stile. Anche qui Kari Faux mescola Southern hip hop e funk, psichedelia e sonorità alternative, puntando sulle notevoli doti tecniche da rapper e su una vocalità sensuale. È vera, schietta, coraggiosa.
Il sound di Kari Faux è riconoscibile, così come il suo flow: sempre deciso, quasi arrogante, ma sinuoso e morbido come il velluto. Mentre le rime scorrono sul beat, la rapper mette le cose in chiaro e rivendica un ruolo da protagonista sulla scena. Le influenze Dirty South sono tante, ma Kari Faux non perde mai la propria identità, innalzandosi in tutto il suo splendore di artista sull’eredità raccolta da OutKast, Underground Kingz e G-Side.
Le collaborazioni, per esempio quelle con Big K.R.I.T. in “TURNIN’ HEADS” e Gangsta Boo in “WHITE CAPRICE” aggiungono ancora qualcosa al disco, ma la traccia manifesto è “ME FIRST”, dove Kari Faux è sola e agguerrita. Ce lo dice subito la title-track: Real B*tches don’t die!

artwork
REAL B*TCHES DON’T DIE! (drink sum wtr)
Posted in Music | Tagged , , , | Leave a comment

Flowers At Your Feet

Cantautrice e artista multidisciplinare, nonché voce della garage band Habibi, Rahill (Jamalifard) prosegue la propria carriera solista con un nuovo ep, Flowers At Your Feet.
Dopo Sun Songs, uscito l’anno scorso come breve e ricercata raccolta di cover, Rahill si concentra su se stessa e sulla necessità di raccontarsi, guardando all’infanzia e alla storia familiare con un velo di nostalgia, come se rimettesse insieme dei pezzi per accettarsi e amarsi di più.
Non caso il singolo “I Smile for E” è dedicato a una cara zia scomparsa: commovente senza essere malinconico, diventa una sorta di lettera d’amore per la sua grande famiglia divisa tra Stati Uniti e Iran. Molto efficace sono anche “Fables”, cantato con Beck, e l’esaltante “Note To Self”, ma il brano più riuscito è “Hesitations”, che mette in guardia dalla tentazione di cercare gli ex partner saltellando sul groove di un basso ipnotico.
Nelle quattordici canzoni di Flowers At Your Feet si mescolano elementi di trip-hop, jazz, rock alternativo e colorata psichedelia, ma tutto si tiene grazie ai testi delicati e alla vocalità raffinata di Rahill, che ha scritto musica e parole nel corso degli anni. La collaborazione con il produttore Alex Epton (già con FKA Twigs e Arca) riesce a esaltare idee e spunti compositivi che magari erano rimasti nel cassetto: ne escono oggi con l’aura di classici senza tempo.
Rahill ci conquista con la sua capacità di essere sentimentale senza suonare sdolcinata né banale. Il suo modo di fare i conti pacificamente con il passato, di pensarlo con amore ma senza rimpianto, è spiazzante. Il calore e la leggerezza di questo disco restano addosso a lungo, come il profumo dei fiori.

artwork
Flowers At Your Feet (Big Dada Records)
Posted in Music | Tagged , , , | Leave a comment